WEEK-END AD ISCHIA

30 Maggio 2009 920 views
WEEK-END AD ISCHIA

Era una nottata buia e tempestosa. I rami degli alberi spogli e senza foglie si piegavano al vento di tramontana, e il sibilo dell’aria che si frangeva nascondeva l’ululato dei lupi, lassù, sulla montagna. Faceva freddo. I tuoni eruttavano violenza senza dare il tempo al lampo di aspettare. La terra tremava di paura. La pioggia cadeva inclemente da nord, una violenza inaudita. Non si vedeva a più di un paio di metri, e il faro del capo Tormentoso stentava a segnalare la giusta via ai battelli che combattevano contro la furia della natura. Grossi uccelli cadevano al suolo, stremati; sbattevano le ali, esausti, e poi affogavano stridendo nelle pozze di acqua lurida, melmosa, immediatamente rapiti da cinghiali neri e sbranati senza ritegno sotto i miei occhi. Uno di loro si accorse della mia presenza, e d’un tratto venti occhi rossi mi puntarono, decine di denti aguzzi apparvero sotto labbra rosse di sangue. Una decina di cinghiali mi stavano guardando, e si avvicinarono lentamente, bramosi di preda. L’orrore di finire tra le fauci di quegli esseri immondi pervase il mio inconscio, tremavo di paura, congelato dall’orrore di una fine straziante. Ma d’un tratto, laggiù, dove batte il cuore, una luce giallognola riverberò nella brughiera, un’immagine si stagliò all’orizzonte. Un uomo. Un uomo sulla sua motocicletta. L’ombra si fermò sulla riva del torrente impetuoso di pioggia che scendeva verso il mare, scese dal suo cavallo di ferro e rimase lì, a guardarmi. Una tenue luminescenza lo avvolgeva. Sembrava che la violenza della natura non lo sfiorasse nemmeno. I cinghiali si fermarono, attoniti, e girarono il capo verso quell’ombra. Lo guardarono, e immediatamente fuggirono via sparpagliati, disperati. Ero salvo. Quell’essere non poteva essere che Lui. Biagio. Biagio di Meglio. Era venuto a salvarmi. Mi svegliai grondante di sudore, scattando come una molla sul letto. Non riuscivo a sintonizzare gli occhi con lo sguardo, tremavo. L’immagine di quei cinghiali ancora riverberava nell’inconscio, e solo dopo qualche minuto capii che era un incubo, che mi ero svegliato, che ero salvo. Grazie a Lui. Quella mattina mi sarei imbarcato su un traghetto per Ischia, dovevo partecipare con il Puledrino cromato a un raduno di xt sull’isola verde. Mi aspettavano un paio di giorni di passeggiate stradali e culinarie con gli amici del club, e non capivo la ragione di tanta tensione notturna. Questo pensiero fece svanire l’ultimo brivido, e guardai oltre i vetri della finestra: era una splendida alba di sole. Mi chiesi come mai avessi avuto un così terribile incubo… un presagio? Cancellai immediatamente l’idea. Forse la sera prima avevo mangiato troppo baccalà alla vicentina, due chili effettivamente erano un po’ troppi, o avevo esagerato con la birra, gli aperitivi, il vino dei Campi flegrei, il limoncello, l’amaro, di nuovo una Ceres, un altro goccetto di vino questa volta rosso di Toscana e due o tre bicchieri di Jack Daniels. Forse sarà stato per questo… bah. Mi alzai con un forte mal di testa. Buon segno. Voleva dire che avevo ancora una testa. Guardai la bottiglia di vodka vuota che avevo lasciato sul letto, vuota. C’era ancora un fondo di liquido trasparente, e lo bevvi. Mi sentii subito di meglio. Rimasi quasi dieci minuti a orinare, una mano sul muro e l’altra a reggere l’organo rattrappito, poi lavai la faccia con l’acqua fredda. Non avevo né la forza né la voglia di una doccia; del resto, due alla settimana sono troppe. Posai lo sguardo sulla mutanda usata, e decisi che non era il caso di usarne un’altra pulita. Mi vestii lentamente, e preparai la valigia. Vi gettai un paio di magliette del motoclub, un costume a fiori, il deodorante alla mela fradicia. Non volevo appesantirmi troppo, del resto in quella valigia dovevano entrare almeno venti lattine di birra e una bottiglia di Four roses. Roba per passare la prima mattinata. Il resto l’avrei rubato nel primo supermercato di Ischia.

 Il Puledrino cromato partì al primo colpo. Una goduria. Passai la mano sul serbatoio luccicante e sussurrai frasi gentili. La moto fece le fusa con un rombo tondo. Ischia era laggiù, illuminata dai raggi del sole. Il traghetto partì puntuale, e in meno di un’ora sbarcai sul molo. Sulla banchina vidi un luccichio, un uomo, una moto: era Biagio Di meglio che era venuto ad accogliermi. Mi venne in mente la sua immagine nell’incubo, e tremai per un momento di paura. Ma non c’erano cinghiali, solo turisti colorati in cerca di tintarella primaverile. Nella folla, un bambino biondo parlava tedesco, si incazzava come una bestia perché la madre lo teneva per mano. Si sbatteva come una furia, e mi fece tornare il mal di testa. Aspettai che la madre si voltasse un attimo e gli assestai un notevole scappellotto sulla nuca. Il bambino mi guardò, e io ringhiai a denti stretti. Grrrrr… quello si rifugiò tra le gonne della madre, e solo allora notai che dietro la gonna della madre c’erano i pantaloni del padre. Un omone enorme. Che mi fissava. Era vestito con una divisa nera, con due strani simboli uguali sulle spalline. O forse no. Sarà stato il dolore, forse, a farmelo vedere così. Quella bestia mi dette un cazzotto sul naso urlando frasi tipo Kartoffel, Shultz, Gepäckträger. Col naso sanguinante detti un colpo al kickstarter, accelerai e scappai tra la folla che si preparava a scendere. Il ponte levatoio del traghetto ancora non era sceso del tutto, e con una sfrizionata lo superai al volo, atterrando sulla banchina proprio davanti a Biagio, che mi guardava con aria sonnolenta. “Sei sempre il solito coglione”, mi disse. Io annuii, e asciugai il sangue con una mano, che poi pulii sul pantalone. “Devi ancora imparare”, continuò, e appena scese l’omone vestito di nero Biagio lo prese per il piede destro, lo fece roteare una decina di volte e lo lanciò nel comignolo del traghetto. “Andiamo”, disse. “Ti porto all’albergo”. E partì sulla ruota posteriore, urtando decine di turisti, spingendoli giù dal molo con tutte le valige. Io, per non essere da meno, lo seguii con la mano sinistra al vento, schiaffeggiando vecchiette al volo. Era iniziata la vacanza a Ischia. L’albergo era più simile a una stalla che a un albergo. Una stalla abbandonata. Dovemmo superare cumuli di guano prima di arrivare all’ingresso. Biagio bussò alla porta che si staccò dai cardini e cadde fragorosamente a terra. Comparve una vecchietta sdentata che si fregava le mani; senza dire una parola ci prese dalle magliette e ci trascinò in cucina. C’era un uomo che sfilettava un manzo ancora vivo. L’uomo alzò la testa e ci sorrise, facendo il segno di avvicinarci con l’indice della mano sinistra e nella destra un coltellaccio arrugginito. Decidemmo al volo che non era il caso di avvicinarsi, così, per istinto, e ci liberammo della vecchietta a pugni nello stomaco. La stanza era la numero diciassette, ovviamente. Aveva una splendida vista sulla discarica del paese, e sulla destra, a poco meno di cinquanta metri, da un depuratore si innalzava una colonna di aria densa e nera, che il vento portava diritto verso di noi. Il letto era un materasso imbottito di paglia, sul pavimento. Il bagno un buco nel centro della stanza. Ispirati, io e Biagio defecammo subito, ma tutti e due sbagliammo il buco, e spingemmo gli escrementi nel foro con i piedi. “Andiamo”, disse il compare di merende, e uscì dalla stanza. Io lo seguii, ma non prima di pulire i piedi sul materasso. Mi portò a pranzo in una bettola sotto la discarica. Anzi, nella discarica. “Si mangia male e si spende molto”, disse Biagio. Io gli credetti subito, e in effetti aveva ragione. Il pomeriggio arrivò il terzo membro del motoclub. Sebastiano venne direttamente dal mare, per risparmiare i soldi del traghetto. Aveva appesantito la moto con due bidoni di whiskey canadese per poter circolare sul fondo, ma a metà strada, poco prima di Procida, li aveva già scolati tutti, e sbarcò sulla spiaggia galleggiando. Ci salutammo affettuosamente a calci in culo. Era il nostro modo di darci affetto. Lo facevamo sempre. Mentre io e Biagio ci accanivamo su Sebastiano semisvenuto, ci fermò un tenue pianto di bambina. Sebastiano aveva portato la figlia. Ci fermammo subito, per non addolorare la piccola. In seguito picchiammo Sebastiano solo quando non c’era la bambina. 

La sera arrivò anche mia moglie. Era vestita come Rambo, sapeva cosa l’aspettava. Ci picchiò tutti e tre con la sua solita violenza, ma fu gentilissima con la bambina. Dormirono insieme al Grand Hotel Terme di Cristallo, poco meno di cinquecento euro a notte per persona, e noi tre ci accoccolammo intorno al buco della camera diciassette, perché il materasso in paglia era pieno di pulci. Sabato. Era il fatidico Giorno Dell’Incontro. Dovevano sbarcare sull’isola altri membri del motoclub, i peggiori. Insieme superavano i duecento anni di carcere di massima sicurezza. Si erano macchiati dei peggiori crimini, e noi eravamo orgogliosissimi di loro. Venivano da posti ameni come Rebibbia, Marassi, Sollicciano. Sbarcarono alla spicciolata, da aliscafi, dopo aver costretto i marinai a sloggiare i passeggeri e imbarcare le loro motociclette. Un aliscafo per coppia. Sì, perché con loro erano venute anche le mogli, che sbarcarono per prime. Non ho mai visto donne più brutali. Ci picchiarono subito, e ci lasciarono agonizzanti sul molo mentre sorseggiavano birre prese da turisti di passaggio. Fecero subito comunella con mia moglie e la figlia di Sebastiano, cacciarono l’autista di una limousine e tutte insieme andarono all’Hotel Terme di Cristallo. Dagli aliscafi infine scesero i nostri compagni in sella alle xt. Facevano davvero schifo. Puzzavano da un miglio marino. Guidavano con una sola mano facendo cavalli sul molo, mentre con l’altra si spiaccicavano patatine fritte sulla faccia e sorseggiavano birra da lattine da un litro. Si fermarono lasciando un chilo di pneumatico sull’asfalto, posando al volo il cavalletto e saltando a piè uniti davanti a noi. Cominciammo subito a menarci come dannati, era il nostro affettuoso modo di salutarci. Coinvolgemmo una cinquantina tra turisti e marinai in una rissa furibonda. Dopo aver abbattuto tutti gli estranei al motoclub, ci impossessammo dei loro orologi e dei portafogli; poi sequestrammo un camion dei Vigili del Fuoco, attaccammo le nostre xt sul tetto e facemmo un giro dell’isola a sirene spiegate, così, tanto per far capire che eravamo arrivati. Eravamo la peggiore feccia dell’umanità mai sbarcata sull’isola verde. C’era Gianluca, detto O’segretario, fuggito da Rebibbia calandosi dal muro con i pantaloni delle guardie che aveva abbattuto a capate. Dalla Toscana erano scesi Claudio, detto Il Poderoso per la sua arma letale: le sue loffe stordivano qualsiasi essere vivente nel raggio di trenta metri. Matteo, che amava usare i coltelli con lame piccole per dare più dolore agli sventurati che subivano la sua furia… mentre tagliuzzava rideva sempre, rideva col suo ghigno mefistofelico. A volte martoriava le prede a morsi. Daniele era di La spezia. La città aveva preso il nome da lui. “La spezia in due” diceva a chi osava affrontarlo… ed effettivamente spezzava in due chiunque avesse il coraggio guardarlo negli occhi. La sua forza era uguale a quella di un caterpillar nuovo di fabbrica. I tre nordisti erano scesi anche con il loro compagno di merende Baba, il cui nome gentile contrastava con la rozzezza del personaggio. Non apparteneva al club, aveva una bmw, ed era venuto a Ischia per affinare la tecnica di combattimento. Era stato cacciato dalla legione straniera quando i francesi notarono che la sparizione di alcuni soldati avveniva quando il Baba diceva di avere una gran fame. Ma l’arma segreta del motoclub xt500 era senza dubbio Fabrizio. Un omone enorme, pesava non meno di 1000 chili. Aveva il corpo completamente ricoperto di lunghe setole ispide, tranne la sommità del capo. Era stato allevato in India in un centro di addestramento per elefanti, e solo quando compì quindici anni gli indiani capirono che non era un elefante. Successe in un’umida mattina di primavera. Trovarono tre pachidermi completamente sbranati, e in mezzo alle ossa bianche sedeva Fabrizio, che mordicchiava una coscia cruda con evidente soddisfazione. Fabrizio li guardò, e con aria sufficiente fece un rutto galattico, che abbatté gli alberi della foresta e spostò in Pakistan gli elefanti più lontani. I più vicini si dissolsero nel nulla. Non erano passati che una ventina di minuti, che Ischia si svuotò. I turisti lasciarono terrorizzati l’isola, chi a nuoto, chi a bordo di zattere di fortuna, chi su surf spinti a bracciate. Biagio ci portò sulla sommità del monte Epomeo, e da lì ci divertimmo a lanciare massi sui fuggitivi. Solo pochi riuscirono a salvarsi. Rimanevano solo gli autoctoni e decine di turisti vecchi che i figli avevano abbandonato per la fretta di fuggire. Ne torturammo solo pochi di loro, non c’era sfizio. Passammo il pomeriggio a tormentare gli ischitani. Ce n’erano anche di grossi, forzuti marinai tatuati che ci dettero filo da torcere per infilarli nei barattoli di nutella da trecento grammi. C’erano milioni di barattoli di nutella sull’isola. Gli Ischioti si nutrivano solo di quella. La mangiavano direttamente dai barattolo, forandolo con la lunga lingua ruvida. Alla fine della giornata, Biagio ci invitò a cena a casa sua. Fummo tutti felici di poter finalmente conoscere la famosa “pagliarella”, sotto la quale il buon Di Meglio preparava intingoli deliziosi con le sue mani sempre sporche di olio 20W50, di cui poi raccontava sul forum del sito del motoclub nella sezione “L’acquolina in culo”. Eh, sì, perché ogniqualvolta ci si provava a ripetere le ricette suggerite dal Biagio, dopo pranzo tutti avevano problemi di diarrea. La casa era un maniero smontato in Scozia e ricostruito identico su una collina di Forio, sulla terra sconsacrata di un cimitero dove venivano bruciate streghe e gatti neri durante l’inquisizione. Nel castello c’era anche il fantasma, un povero cristo che non riusciva a fuggire perché il Biagio lo teneva legato con una catena e si divertiva a calarselo in gola per poi farlo riuscire giallo di succhi gastrici e rimasugli di cibo. 

In quel ridente luogo ci raggiunsero le mogli, comprese la moglie di Biagio e la figlia di Sebastiano. Cominciammo subito a darcela di santa ragione. Le donne ebbero ovviamente la meglio. Ci legarono sul ponte levatoio e si divertirono a tirarci in faccia ruote di camion. Avevano tutte una mira perfetta. Solo Fabrizio se la rideva: ogni volta che una ruota gli arrivava in faccia, apriva la bocca e l’ingoiava con tutto il cerchione. Diceva che erano squisite, specialmente quelle segnalate dalla guida Michelin. Fatta sera, ci liberarono. Fu allora che cominciò a piovere. Ma non era acqua: era una tempesta infuocata di lava e massi incandescenti. Il Vesuvio era esploso. Capimmo subito che era opera di due perfidi soci del motoclub: tal Pisolo Max di Sanremo, che con un accordo intestino stipulato con Amedeo di Pescara avevano minato il Vulcano per gelosia. Ma fu allora che Claudio utilizzò la sua supermegaarmasegreta: si abbassò i pantaloni e sparò una Poderosa loffa al cielo. I meteoriti si dissolsero, e il cielo tornò sereno. Applaudimmo e poi lo menammo per bene, lasciandolo tramortito in una fossa comune del cimitero. 
Che divertimento! I laziali e i campani hanno lasciato per primi l’isola. Oggi tornano in galera i toscani e i liguri. Tornano alle loro celle umide, ai ratti per colazione. E io sono qui a stendere un resoconto per gli sfortunati membri del motoclub che non sono riusciti a partecipare al Primo Raduno di Ischia. Biagio ci ha detto che col cazzo ne organizzerà un altro. Bene, l’anno prossimo sarà più divertente: sarà carino provare l’ebbrezza del D-day sulle spiagge dell’isola verde. 


Ma state sicuri, ischioti. Saremo moooooolti di più. 

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