DA NAPOLI A CALCI

21 Giugno 2009 564 views
DA NAPOLI A CALCI

19 – 21 Giugno 2009.  “Cominciò così… parto da napoli.sono 558 km.tosti. avevo scritto le varie tappe. roma-e 80-collesalvetti-ss 206- ss 67 bis… poi una mail di un amico mi invitava a fermarvi a roma. 
venerdi : campania-lazio-toscana SERENO !!!! 
sabato: toscana-pisa….. pioggia e schiarite, 70 % probabilità di pioggia… 
domenica: toscana-pisa come sabato…ma solo…60 % di probabilità di pioggia… e lungo la strada del ritorno: viterbo e roma nubi sparse e 20 % probabilità e ora viene il bello… frosinone, temporali e schiarite 80 % probabilità di pioggia…e napoli, invece, TEMPORALI e SCHIARITE, 70 % di probabilità di pioggia… a napoli, non piove dal 2 giugno…cacchio, che mazzata sul morale. La mia compagnia (moglie e figli) è sul chi va là. l’amico romano ha scatenato un putiferio le previsioni di domenica che mi/ci spaventano (a me e a paola, mia moglie). Le previsioni danno alta,70-80%, di probabilità di pioggiada roma in giù e anche sulla provincia di latina. per non parlare di napoli, pioggia dalle 12 alle 20. Che cazzo, ci tengo tanto. Ho fatto pure una pettorina…cmq, non so che fare. Mi sento tante responsabilità anche verso la mia famiglia… 

CAPITOLO PRIMO: PARTENZA
L’uomo aveva paura, ma per gli uomini veri il verme della paura non striscia che sul filo del rasoio che separa il coraggio dalla follia. Per gli uomini veri la paura è adrenalina, adrenalina allo stato puro. Adrenalina per tendere i muscoli del giaguaro, adrenalina per scrutare con gli occhi del falco, adrenalina per avere la forza dell’elefante. E Tore è un uomo vero: in lui vivevano un giaguaro, un falco, un elefante. Un po’ stretti, ma ci stavano. Voleva partire sul suo destriero di ferro, affrontare l’inconscio e il conscio, il timore e la pioggia, arrivare a Calci da Napoli per l’undicesimo raduno xt era l’ordalia segreta della sua vita. Se avesse fallito sarebbe stata la sua vita a fallire. No. Nemmeno l’uragano l’avrebbe fermato. Era in gioco la sua essenza di uomo vero. L’alba. Alba livida, vento ghiacciato da nord. Una leggera nebbia velava l’orizzonte, e il freddo si sentiva nelle ossa. Affacciato alla finestra Tore guardava e sfidava con lo sguardo la lunga striscia di asfalto lunga seicento chilometri che l’avrebbe portato in Toscana. Alle cinque del mattino era già vestito. Indossava un’armatura di cavaliere teutonico del cinquecento, eredità della sua stirpe, gli Urciolen di Stuttgard. La mano reggeva il vessillo della casata, un pollo arrosto infilzato da un coltello e una forchetta. Dall’altro lato Tore aveva scritto “11° Motoraduno xt500: a Calci da Napoli”; aveva l’impressione che si potesse interpretare in più modi, ma se ne fregava. Lui, sarebbe arrivato al raduno a Calci da Napoli e basta. Staccò il vessillo dall’asta e l’attaccò alla schiena. Nel letto si dibatteva la moglie, legata come un salame, con una benda sulla bocca per evitare che urlasse. All’amico di Roma gli aveva telefonato, e l’aveva rassicurato. “Non parto più”, gli aveva detto. Le bugie sono l’anima dell’azione. Tore si voltò, guardò la moglie con aria sufficiente e disse: “Io vado”. Poi si girò di scatto e inciampò nel tappeto, collassando a terra con l’armatura che pesava non meno di duecento chili. Dopo venti minuti riuscì ad alzarsi e non fece in tempo di aprire la porta che inciampò nel vessillo, e scese rotolando giù per le scale, fino a trovarsi con la faccia sotto al carter della sua motocicletta. Plic. Una goccia d’olio gli cadde nell’occhio. Tore la colse con un dito e la portò alla bocca. Assaggiò quel liquido scuro e capì che niente l’avrebbe fermato: l’olio che aveva messo nella moto proveniva dal Marocco, ed era di ottima qualità. L’alba tenue illuminava in controluce il cavallo di ferro. Era bellissimo. Si stagliava all’orizzonte come la polena dell’ammiraglia di Nelson a Trafalgar. L’uomo rivolse lo sguardo alla sua motocicletta, e quella gli rispose con un nitrito. “Un nitrito? Quale nitrito! Le moto non nitriscono”, pensò, e focalizzò meglio l’orizzonte. Non c’erano valli sterminate, né montagne innevate, ma un camion della monnezza che aveva i freni rumorosi. L’alito del cassone pieno di sacchetti entrò nelle narici, e per un attimo si sentì Alice nel paese delle meraviglie: il camion della monnezza era appena passato per Secondigliano a raccogliere ignari sacchetti pieni di residui della lavorazione della cocaina. Ma questo Tore non lo sapeva. Si sentì un leone, e come un leone nella savana ruggì. “Cazzo”, mugugnò. “Forse un chilo di pan di stelle e due litri di latte intero era troppo per colazione”. La moto partì al primo colpo. Il primo colpo sparato dal fucile dell’inquilino del terzo piano che era stato svegliato dal casino che Tore faceva da un’ora. E iniziò l’avventura. 

CAPITOLO SECONDO: AVVICINAMENTI 
Inebriato da cotanta adrenalina e non solo , Tore si guardò intorno, via Tino da Camaino appariva fulgida nella luce dell’ alba, il sole da Est illuminava il destriero cromato, il motore ruggiva, le frecce non funzionavano, le forche sembravano tenere, il pieno era stato fatto la sera prima ……., il colpo sparato dal terzo piano rimbalzò sull’ armatura all’ altezza della scapola, pensò ad un calabrone, il sacchetto lanciato dal quinto piano lo mancò per poco, pensò a qualche ragazzo in vena di scherzi con i mortaretti, non si meravigliò, era a Napoli. Nella inconsapevolezza più totale staccò i piedi da terra e partì in direzione Ovest verso Pozzuoli. Volle passare innanzitutto per la Solfatara, sia per riempirsi i polmoni di aria di casa sia come viatico. Aveva pensato anche di fermarsi a Cuma per un salto all’ oracolo della Sibilla, ma poiché incominciava a farsi tardi fece un solo saluto fuori alla porta dell’ Ade. Arrivato a Pozzuoli si imbattè in un alterco tra pescivendoli che litigavano per il posto abusivo sulla strada e che non consentivano il passaggio quindi tra il dire e il fare , combattuto nel suo animo di guerriero senza macchia gli si parò davanti per ristabilire il giusto ordine . Non gli fu dato modo di dire la classica frase ” guagliù nun’ facite accussì che vach’è pvess……”, fu coinvolto in una rissa gigantesca , con ragazzi che fiondavano cozze e vongole del golfo e gli altri che rispondevano lanciando nell’ ordine calamari , polpi, orate piccole e qualche pesce luna. E Tore purtroppo si trovò in mezzo. Dopo qualche minuto sopraggiunse lo sceriffo del luogo che distribuendo palate a tutti, Tore compreso, sciolse il blocco stradale . Tore ripresosi dallo sconcerto inforcò il destriero e fuggì lontano , si riprese solo verso Villaggio Coppola dove proseguì a velocità di crociera , godendosi le bellezze dei luoghi e rimuginando sul senso della vita . La strada era bellissima lunga, alberata ed anche frequentata da donne in maggioranza nere, sarà per la raccolta dei pomodori pensò , vista che questa è anche zona di mozzarella le due cose si sposano bene . A qualche km da Formia si fermò sulla strada per benzina e cambio di acqua alle olive e prese a parlare con una di queste donne per approfondire e scoprì che erano povere colf africane illegalmente importate e sfruttate per ripulire la strada o almeno così gli parse di capire , visto che il suo candore umano gli impediva di pensare alle brutture del mondo. Sally così gli disse di chiamarsi, dopo averlo visto senza casco prese a ridere , Tore non capiva . ” Uè ma che tengo a’ faccia e’ scemo? No Dore , hai una gabigliadura rasda gome i giovani bordano al mio baese , gon dando gel, non benzavo ghe anghe gui voi fare guesdo”. Allora Tore capì, uno dei polpi utilizzati come arma impropria nell’ alterco di Pozzuoli si era messo al riparo sotto il casco e capì anche che cos’era quel senso di caldo umido in testa. Staccò il polpo, gli diede un morso tra gli occhi e lo pose sulla testata fumante, questo me lo mangio a Latina pensò e salutata Sally che scoprì il vero volto dell’ uomo, continuò la sua corsa . Si erano fatte le 10,30 quando arrivò a Latina, entrò in una salumeria comprò un panino, ci mise il polpo in mezzo cotto intanto sulla testata e lo divorò in quattro morsi, aspettò che si riposasse il destriero. Riprese il viaggio verso Roma , la città eterna , sapeva che non poteva fermarsi anche se aveva una grande voglia di vedere il santo padre, ci avrebbe pensato al ritorno . Giunto alla periferia della capitale, fu chiamato da un uomo , aveva visto sulla pettorina attaccata alla schiena dell’ armatura, la scritta: “RADUNO DI CALCI PER DESTRIERI XT”. Era un suo concittadino trapiantato nella capitale da anni, un certo Massimo. Si fermò e si abbracciarono, Massimo era un suo fan ed aveva saputo dell’ impresa del Leone del Vomero, lo aspettava sulla strada fin dalle prime luci dell’ alba . A questo punto dopo abbracci e lacrime e la solenne promessa di fermarsi al ritorno per andare insieme a San Pietro, Tore capì che nessuno avrebbe potuto più fermarlo nella sua impresa , inforcò il destriero e partì verso Fiumicino, Calci ora era molto più vicina… 

CAPITOLO TERZO: CONTRATTEMPI VOLANTI 
“O Voma o tvemo” disse Tore dalle parti di Fiumicino. In effetti non aveva nessuna intenzione di anagrammare frasi famose, aveva semplicemente freddo; del resto, “O Voma o tvemo”, come effettivamente disse, non aveva nessuna logica enigmistica. La temperatura si era abbassata verticalmente: dai venti-ventidue gradi, il termometro del suo orologio multifunzionale segnava trentaquattro gradi sotto zero. Si guardò intorno: alcuni pinguini lo guardavano stupiti, un orso bianco gli offrì un salmone appena pescato, ma era da Pozzuoli che a Tore il pesce gli faceva schifo, e rifiutò. L’orso si offese moltissimo, e gli piantò un cazzotto in faccia. Mai rifiutare un salmone da un orso polare. Sotto l’armatura era completamente nudo, e la pelle si era attaccata al ferro. “Qui se non mi compvo una canottieva, svengo”, continuò, ma guardandosi intorno si rese conto che non c’era nessun negozio di canottiere da quelle parti; il più vicino, aveva segnalato il navigatore del suo orologio multifunzionale, era a Roma. In effetti, si trovava in un posto davvero strano. Era fermo con la sua moto nel bel mezzo di una larghissima strada a una corsia, e tutto intorno c’era un prato. Non si ricordava quale deviazione avesse fatto, ma si trovava su una strada davvero inusuale. “Stvano. Molto stvano” bofonchiò, e fece appena in tempo a bofonchiare stvano, che un cargo McDonnell Douglas C-17 Globemaster III gli atterrò sulla pancia: era nel bel mezzo della pista sei dell’aeroporto Leonardo da Vinci. L’aereo rimbalzò sull’armatura e riprese quota, ma non prima di scaricare sulla sua testa il contenuto del carico: sei carri armati M1 Abrams e otto Hummer blindati. Si distrussero subito a pezzettini: Tore era davvero un capatosta. Fu subito lanciato l’allarme: un uomo in armatura, in sella a una motocicletta luccicante, si trovava nel bel mezzo della pista sei dell’Aeroporto di Fiumicino, e aveva appena costretto un cargo McDonnell Douglas C-17 Globemaster III a riprendere quota e a sganciare il carico bellico, distrutto appena toccato il suolo. I generali dell’Aviazione Militare, guardando Tore con un binocolo, pensarono subito a un attacco alieno, e fecero alzare in volo uno stormo di dodici Tornado. Il nostro eroe li guardò alzarsi lasciando dietro una densa scia di fumo e disse “Guavda, guavda quegli uccellini, devono avev mangiato pasta e fagioli…”, ma gli uccellini erano invece i più progrediti bombardieri in forza all’aviazione, e portavano un carico capace di radere al suolo una cittadina come Sesto Fiorentino, o Fiorenzuola d’Arda, o addirittura Soresina. Gli aerei si portarono velocemente a dodicimila piedi, e sganciarono il loro carico mortale. Tore li guardava con interesse, gli erano sempre piaciuti gli uccelli, e di quel tipo non ne aveva mai visti. Passarono solo pochi secondi che le bombe cominciarono ad esplodere. “Cazzo!”, pensò Tore. “Sta cominciando a pioveve. Me l’aveva detto, mia moglie! Senti che tuoni… guavda che lampi… meglio andave”, e bestemmiando contro il progettista dell’Honda XL, si rimise in sella del suo cavallo di ferro. Fu allora che sentì un leggero solletico all’intestino, e si alzò sulle gambe sparando una loffa proprio nel momento in cui una bomba da duemila tonnellate esplose a un paio di metri da lui: “Ohibò”, disse. “Fovse quel polipo non eva cotto molto bene”, ma lo disse in volo, a cinquanta metri dal suolo, roteando verso quella strada che aveva sì un nome gentile, ma che sarebbe diventata il suo incubo… l’Aurelia. 

CAPITOLO QUARTO: LA META 
Durante quei 46 interminabili secondi, nei quali roteò in aria col destriero cromato, Tore fu assalito dai pensieri più impossibili ed impensabili, non avendo appieno compreso il perché degli eventi, si sentiva un po’ Patrick de Gayardon, un pò Icaro, un po’ stuntman ed un po’ astronauta di Shuttle, finchè la dura realtà dell’ asfalto si materializzò sotto le sue gomme . Miracolosamente si ritrovava sul raccordo verso Ostia perfettamente allineato alla linea di mezzeria ed a velocità di crociera. Il destriero di razza aveva retto bene anche l’ atterraggio e quindi spensieratamente continuò la sua marcia trionfale. Imboccò la Roma-Civitavecchia quasi senza accorgersene , la strada era libera e solo allora materializzò che aveva il motore spento ed era in folle, andava ancora con l’ abbrivio, non si sa se per l’esplosione o per la micidiale contro loffa che aveva autonomamente concepito in un momento così delicato, sta di fatto che risparmiò un bel pò di carburante ed il destriero si sentì riposato per affrontare il restante tratto . Ad ogni modo si bevve tutta l’autostrada. A Civitavecchia imboccò l’ Aurelia in direzione di Grosseto, gli si parò davanti un nastro di asfalto sicuramente meno lineare di un’autostrada, con il mare a tratti sulla sinistra , platani, colline e olivi tutti intorno. Era bello e Tore si sentì felice, marciava spedito verso la meta malgrado le avversità patite alla partenza . Stranamente l’ ultima cosa a cui pensava e che era stata motivo di tante titubanze e preoccupazioni , non lo sfiorava assolutamente , il tempo meteorologico. Ad Orbetello, ispirato dalle lagune tutt’intorno, si fermò per un caffè e dando un occhiata al suo orologio multifunzione si rese conto di essere in anticipo sulla tabella di marcia e di avere una discreta fame, si dimenticò della disavventura di Pozzuoli e si ricordo di essere innanzitutto un napoletano verace come una vongola . Impastoiò il destriero con la benzina, fece un rabbocco di olio e si spaparanzò a Porto S.Stefano fuori ad un ristorante ordinando nell’ ordine: Arselle alla Portoghese, un pezzo di branzino di circa 1 kg. all’ acqua pazza e un trionfo di frutta, il tutto innaffiato da una vernaccia di S.Gimignano e da un caffè finale e conclusivo. Nel suo piccolo pensava alle mazzate prese al mattino, al polpo, al volo di Roma ed anche a Sally, l’ africana conosciuta al mattino, effettivamente aveva dei grossi seni ed era estremamente appetitosa, appennicandosi sulla sedia pensò che sarebbe stato bello portare anche lei , magari… avrebbe …potuto…guidare…zzzzz,zzzzz.zzzzz . OHE’ SIGNORE ! OH’HE MI FFA’ MI DORME SULLA SSEDIA, ‘UESTO E’ IL ‘ONTO CI TOHHA ‘HIUDERE, Ehho le hoffro un’haltro haffè,…vedi sto’ bischero! Preso un altro caffè, pagato il conto, scordatosi dell’ incontro africano, Tore ripartì come se fosse appena uscito da casa, la meta era vicinissima, si mosse in direzione Pisa e sbagliando strada più volte ritrovandosi per ben ventisei volte a piazza dei Miracoli, arrivò finalmente a Calci. La meta era costituita da una vecchia casa sulle colline, la cui proprietaria era una vecchia megera che ogni tanto (ma questo lo si seppe dopo), faceva sparire qualche ospite per organizzare succulenti cene per le persone presenti nella casa e che non appena lo scorse lo palpò probabilmente per tastare il suo stato di frollatura, viste le vibrazioni patite per tutta la giornata. Non appena arrivò, Tore potè riconoscere alcuni cavalieri di pari rango anch’essi convocati per il raduno annuale dei destrieri, nell’ ordine incontrò e si salutò con: Poderoso da Lucca, Davide Ufficiale che nientemeno era arrivato da Soresina, Cicco da Fuorigrotta e Del Meglio dall’ insula di Ischia , questi ultimi due avevano preferito unirsi a messer Motopino da Isernia ed ivi arrivati con un carro veloce di nuova concezione trainato da cavalli chiusi in un cofano, sul quale avevano caricato i destrieri, altri messeri sarebbero arrivati in serata ed altri ancora il giorno dopo per il torneo finale. 

CAPITOLO QUINTO (quella mai scritta da mano umana):IL RADUNO 
Quella sera ed il giorno successivo molti altri cavalieri si portarono presso la casa di Calci , fu il turno di Sauro da Sesto Fiorentino scuroso nobile alla ricerca di un destriero da tempo quasi estinto, Ser Matteo, toscanaccio dallo sguardo gentile anche se si diceva di lui che amava torturare le sue vittime con coltelli e morsi , fra Amedeo da Pescara frate benedettino scacciato dall’ ordine per motivi mai chiariti e fondatore di una setta parallela denominata i motociclisti scalzi e che era venuto a piedi perché aveva costretto il proprio destriero al romitaggio nella speranza che comprendesse i propri guasti e li risolvesse da soli, Don Fabrizio da Rocca di Papa segretario particolare dello zio del nipote del cugino dell’ arcivescovo di Nemi e consorte, Ser Poldo da Arezzo, don Maurizio da Macherio, il nobile Manuele Barbarossa da Monza , con il suo destriero da fuoristrada, Marco da Verona con il suo cavallo da strada, Gianluca da Roma quale segretario della congrega , Luigi il Mastro anche da Roma, un certo Baba arrivato con un mustango allemano forse per convertirsi al credo giapponese, un tal Pablo di chiare origini iberiche arrivato dal Granducato di Fiorenzuola con carrello al seguito per il trasporto della birra, tal Skika di origini vikinghe trapiantatosi in quel di Fano con la sua latta portatile di olio anziché di benzina, Don Marco da Milano e tal Eros anch’esso meneghino con un destriero fuoristrada 530 e tanti tanti altri di cui Tore non ricordava il nome e non ultimi il capo della congrega tal Ferrino da Pesaro/Urbino ed un certo Alessandro Dumbut dalla lontana Carnia , partecipato con la propria famiglia, completavano il raduno i numerosi bambini ed alcune delle mogli dei cavalieri. Quella sera ci furono gozzoviglie e tavolate, il vino scorse a fiumi nella locanda del paese e qualcuno benché alticcio infine propose di far sgranchire le ruote ai cavalli portandosi in notturna fino al luogo del torneo chiamato dagli abitanti del posto Santallago. Malgrado la stanchezza e la pesantezza per le libagioni, Tore inforcò il destriero e tutti sciamarono nella notte su queste strade montane fino ad arrivare nel luogo prescelto. Quivi Tore si ritrovò in un sabba demoniaco con luci colorate, gente invasata che cantava e suonava, altra gente che si dibatteva e contorceva in estasi, cavalli a ruote sparsi in ogni dove , tende, biscotti dallo strano sapore e vino e birra a fiumi. Si perse con i suoi compagni, ma il sangue partenopeo alla fine li fece riunire ed insieme lanciandosi perdutamente nei tornanti notturni arrivarono alla casa . Nella stanza presa insieme al Cicco al Bio ed a Motopino , sistemò i bagagli e felicemente si addormentò con gli altri, non senza che i quattro, sprangata la porta per paura della megera , si dichiarassero russatori e pertanto nella consapevolezza che alcuno di loro potesse lamentarsi dell’ altro. La mattina successiva passò preparando i destrieri, tutti i presenti parlavano delle peculiarità dei meccanismi e più di una volta Tore, pur non riuscendo per timidezza a conoscere tutti , fu coinvolto negli argomenti e preso alla sprovvista , in particolare quando gli chiesero quale carburatore montasse o se avesse cambiato le fasce elastiche . In verità non sapeva proprio di cosa discutere, aveva comprato il destriero da molti anni ed aveva messo solo la benzina e l’ olio, forse cambiata la candela e questi termini non li conosceva proprio, forse per le fasce pensava a quelle del suo bambino, ma non ricordava fossero elastiche, il carburatore poi non gli ricordava nulla. Ad ogni modo, si confortò quando seppe che neanche Cicco sapeva cosa c’ era dentro alla testata ed anche Biagio fu preso alla sprovvista da domande sulle bronzine che a lui gli ricordavano il branzino mangiato ad Orbetello . Gli altri chi più chi meno avevano una preparazione mostruosa, compreso Motopino da Isernia che diede ai tre qualche piccola lezione . Nel pomeriggio, lustrati i mezzi ritornarono a Santallago e si ritrovarono tutti quanti sul prato, a fare piroette ed evoluzioni , il prato alla luce del giorno appariva sicuramente più normale e la gente pure. Ad un certo punto, lanciato il torneo i presenti si divisero, alcuni andarono a percorrere una mulattiera per far sfoggio dei loro mezzi su quelle strade, altri andarono lungo le strade montane meglio tenute per godersi anche il panorama . Alla fine si ritrovarono tutti sul prato per una grande bevuta di birra. Andarono poi tutti insieme a rendere omaggio alla famiglia di tale Alessandro da Montemano, cavaliere partito per i lontani orizzonti e mai più tornato ed assente oramai da due raduni . Ad ogni modo anche quella sera nella casa, al ritorno fu una festa di libagioni e vino a fiumi, la vecchia megera aveva preparato da mangiare e nessuno si chiese se mancasse qualche ospite . Le mamme contarono e ricontarono i bambini, i cavalieri invece pensarono di avere la carne troppo coriacea e quando tutti furono certi di essere lì, si diede inizio alla festa. La notte fu buia e tempestosa e quelli che dopo le libagioni vollero ritornare al sabba di Santallago vennero riportati giù dalla fiumana straripante che dalla montagna arrivò fino alla casa nella notte. Al mattino tutti ebbero l’ impressione che qualcosa di mostruosamente naturale fosse successo ma non evidenziandosi nulla a vista nessuno parlò. Tra preparativi per la partenza e schiamazzi fu indetta l’ assemblea dei cavalieri e fu eletto il nuovo capo della congrega che risultò essere poi Don Maurizio da Macherio, qualcuno ipotizzò che arrivò qualche ora prima un messaggio personale alla congrega da parte di un certo Silvio anch’ egli di Macherio, ma nessuno ha mai saputo sfatare questa diceria né sapere se fosse vera. Ordunque, nominato il nuovo consiglio della congrega, la seduta si sciolse ed i cavalieri chi con i carri chi con il destriero chi a piedi come fra Amedeo da Fano, tornarono tutti verso casa . Tore era dubbioso, piove o non piove? Pavto o non pavto? Questo era il dilemma ed intanto ripensava a quell’ ultima notte… 

EPILOGO 
Notte. Notte fonda. L’ultima notte. Tore sognava. Sognava spiagge dorate accarezzate dalla schiuma soffice di onde lunghe, gentili, calde. Sognava di far l’amore con Sally sulla sabbia, il sole dei tropici, la brezza sottile che muoveva le grandi foglie delle palme. Braccia vogliose lo stringevano, lo tenevano stretto ai seni turgidi, scuri. Le labbra carnose gli baciavano il collo, i lunghi capelli erano sciolti sul viso, il fremito di una lingua cercava la sua, un turbinio di vibrazioni che gli facevano inarcare la schiena dal desiderio. “Quanto sì bbona!” disse Tore. Aveva un’erezione mostruosa e spingeva il ventre contro l’umidità rivelata; stringeva forte il corpo sinuoso schiacciandolo contro il suo, baciava quel volto con passione. Un urlo strappò il sogno: “Aaaaaaaaaaaaaaaagh! Ma sì asciuto pazzo! Che cazzo stai facendo?” Tore non stava facendo l’amore con Sally, stava per violentare Giuseppe Motopi che dormiva sul pagliericcio accanto al suo. Proprio quando stava per possederlo, Peppe gli piazzò una granucola di cazzotti in faccia e lo spinse lontano. Ancora inebetito, Tore rotolò sul materassino sgonfio dove dormiva beato il Biagio, e cercò di baciarlo in bocca, ma la reazione fu immediata, e violenta. Biagio lo prese per il piede sinistro e lo fece roteare in aria molte volte prima di lanciarlo fuori dalla finestra. Purtroppo, la finestra era chiusa. Anzi, non si poteva chiamare propriamente finestra la porta blindata che chiudeva gli infissi. Ma Tore non si fece nemmeno un graffio: era un uomo duro, e continuò a dormire, sognando Sally che scappava sulla spiaggia completamente nuda, il sederone enorme che rimbalzava sulle gambe. “Ciao, Sally”, la salutò, e finalmente scivolò in un profondo sonno ristoratore. La notte è piccola per te, troppo piccolina. Because the night. Ma la notte no. Tore non russava, emetteva un brontolio profondo, molto simile al rumore in sala macchine del motore del Titanic ad avanti tutta. Questa fu la ragione per cui nessun membro del motoclub xt500 si accorse del passaggio del primo uragano tropicale sulla Toscana. Il vento superava i trecento chilometri orari, la pioggia e la grandine in venti minuti avevano formato un lago grande quanto il Chiticaca, la torre di Pisa era completamente immersa dalle acque. Un’ondata anomala sollevò la prigione rurale dove erano stati rinchiusi i soci per la notte, e la trasportò a valle, tanto a valle che gli abitanti di Caltanissetta rimasero stupiti nel vederla passare. Tunisi era già un ricordo, quando l’edificio fu sollevato dalla massa d’acqua da una sferzata di Ghibli, che lo fece tornare indietro rotolando, esattamente nel punto dove la prigione aveva le fondamenta. Fu allora che la bufera terminò, d’un tratto. Insomma, non era successo niente. E allora mi chiedo: che l’ho scritto a fare? Ma l’uragano c’era, si era soltanto nascosto in attesa che il primo socio si affacciasse alla porta. Il primo a svegliarsi fu Maurizio, il nuovo Presidente del Motoclub. Voleva dare un bell’esempio a tutti i soci, e salì completamente nudo sul tetto della prigione, alternando flessioni a piegamenti ventrali. Ogni tanto accennava qualche passo de “I’m singing in the rain”, nella parte di Ginger Rogers. Il secondo fu Ferrino, che appena si accorse della performance di Maurizio, non volle essergli da meno e si mise a ballare con Maurizio interpretando Fred Astaire, consumando così una sottile vendetta. Il terzo fu Gianluca, che subito mise a verbale l’accaduto. Il quarto fu Manuel, che si lanciò in un ballo dell’orso. Il quinto fu Davide, che approfittò del momento per dipingere di giallo tutte le moto dei soci del club. Il sesto fu Amedeo, che non si ricordava dove aveva nascosto l’AK47 che avrebbe voluto usare alla fine della festa. Il settimo si riposò. Fu Claudio il Poderoso che chiuse i balli. Come padrone di casa dichiarò concluso l’undicesimo raduno sparando al cielo una loffa mostruosa delle sue. L’uragano l’interpretò come un segnale d’invito, e scatenò l’inferno. Tore, che dormiva ancora beato, si svegliò all’improvviso. “Il tempovale!”, urlò. E adesso come tovno a Napoli?” Fece un salto e si infilò nell’armatura. Ma nell’armatura aveva fatto tana una famigliola di porcospini che non aveva nessuna intenzione di cambiare residenza. Tore ingaggiò una lotta furibonda che si concluse soltanto quando i porci se ne andarono, lasciandogli però tutte le spine nel culo. Tore sbraitava, per la prima volta nella sua vita aveva paura. Paura di tornare a Napoli sotto la pioggia. Era incontrollabile. Per placare il suo terrore, i soci dovettero sedarlo con una miscela di idraulico liquido, napisan plus e spremuta di ghiro. Messo in condizioni di non nuocere, legarono Tore a una sedia e lo gettarono nel furgone dei sudisti, che l’avrebbero fatto sparire durante il viaggio di ritorno. Con una pietra al collo dalle parti del Tevere. 
E venne il momento dei saluti. Brevissimi, perché Ame aveva ritrovato l’AK47. Nel furgone blu, Claudio, Biagio e Giuseppe macinavano chilometri, chiacchieravano e si dimenticarono di Tore. Fu a Caianello che si ricordarono di lui. Quando aprirono il portellone, lo videro seduto tranquillamente sulla sedia, slegato. Ma principalmente videro le loro XT ridotte a rottame. Tore li guardò con aria sufficiente, prese da dietro la sedia un martello pneumatico e lo mostrò ai soci allibiti. “Ho sconfitto i mulini a vento”, disse ghignando, e saltò sulla sua motocicletta mettendola in moto con i denti, al primo colpo. Saltò dal cassone con un cavallo, fece sei giri su se stesso su una ruota, l’anteriore, salutò con la manina, gridò “Vamonos, Sancho” e in un attimo svanì all’orizzonte. il Cicca, Bio2 e Motopi si persero nel mondo. Li ritrovarono dopo trent’anni in Barbagia, avvolti in pelli di pecora mentre mungevano un toro con le mani.

FINE 
“Ero preoccupato. Per il tempo. Per lo sterrato!! Ricordavo il raduno di San Severino Marche, anche lì arrivai con la moto. E al ritorno a Frosinone (frosinone,dal greco”frosinonen=luogo dove piove sempre e in abbondanza), fui devastato dalla pioggia. Mi ricordavo della simpatia che trovai lì. Ora mi confortava la disponibilità di Fabrizio. L’amore per l’xt 500 mi portava a sfidare i 580 km. Una volta arrivato sarei stato in ambiente amico. E davvero. Ricordavo di Gianluca, di Paolo, di Ferrino e di Alex. Ho ritrovato cicca e Biagio con i quali avevo passato una piacevole mattinata napoletana. Ho conosciuto Pino, un bravo ragazzo. Con tutti ho capito che se avessi vinto la mia timidezza avrei trovato certamente una persona speciale. Bisogna essere speciali per amare la nostra xt. Non con tutti sono riuscito a comunicare. Con tutti avrei voluto. Con tutti credo ci sarebbe stato il giusto feeling. Siete davvero speciali. Manuel, Smerciu, Matteo, Dumbut, Davide(come cazzo mi ha lasciato sul posto lungo la discesa), Poderosa, Amedeo… Mi dispiace non essere riuscito a esprimere con tutti la mia contentezza di essere tra di voi.la prossima volta sarò meno preoccupato. Me ne fotterò di non sapere che carburatore ha la moto,o a che servono le valvole. L’importante sarà divertirci, bere birra, rincorrerci sui tornanti, sentire il rumore delle nostre puledrine. 


Che spettacolo tutte quelle XT, una dietro l’altra. 
Grazie davvero per le belle emozioni. A tutti voi. E un ringraziamento supplementare ai tanto disponibili e generosi,Fabrizio, Marina, Biagio, Pino e Cicca. Loro sanno perchè.” 
Tove. 

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